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L’emissario Albano racconta: serata divulgativa sul Progetto Albanus

Locandina Invito serata Progetto Albanus

 

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Bracciano (Roma): scoperto ed esplorato lo sconosciuto tratto iniziale dell’acquedotto Traiano. Conferenza speleologica di presentazione il 21 giugno 2014.

L’acquedotto Traiano venne costruito dall’imperatore Traiano nel 109 d.C. e raccoglieva le acque di diverse sorgenti attorno al lago di Bracciano (lacus Sabatinus), sui monti Sabatini. Lungo complessivamente 57 km, raggiungeva la città con un percorso in gran parte sotterraneo lungo le vie Clodia e Trionfale e poi su arcate lungo la via Aurelia, entrando a Roma sul colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere. Dopo la caduta dell’Impero Romano il condotto fu interrotto e riparato più volte, fino ad essere abbandonato intorno al IX secolo.

Delle molte sorgenti le più lontane da Roma si trovavano lungo il Fosso di Grotte Renara, a est di Manziana. Da qui un ramo di acquedotto scendeva verso SE fino alla sponda del lago e lo aggirava in senso orario, intercettando lungo il percorso le acque provenienti dalle altre sorgenti. Un ulteriore ramo di acquedotto traeva origine a SE di Oriolo Romano da quella ricca area sorgentizia, oggi denominata Santa Fiora, che è nota per l’omonimo ninfeo. Questo secondo ramo scendeva è stato sempre genericamente indicato scendere verso il lago e ricongiungersi con quello proveniente da Grotte Renara, secondo un percorso che fino ad oggi non era mai stato identificato né descritto con esattezza. Anche perché fu tagliato in un’epoca imprecisata tra il VI e il IX secolo e mai più ripristinato, a differenza di altri rami dell’acquedotto che furono ristrutturati più volte, in particolare nel XVII secolo da papa Paolo V, quando l’acquedotto completamente ricostruito prese il nome di Acqua Paola (oggetto di indagini speleologiche da parte dei colleghi del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio (http://www.scintilena.com/scoperto-ed-esplorato-un-tratto-dellacquedotto-paolo/05/13/)

Le sorgenti della Fiora, dopo un lungo periodo di abbandono e di probabile utilizzo locale, furono impiegate a partire dal 1698 per alimentare Bracciano, attraverso l’acquedotto Orsini – Odescalchi, che raggiungeva la cittadina con un percorso in parte sotterraneo e in parte su arcate e ancora oggi alimentano l’acquedotto moderno di Bracciano. Se le sorgenti della Fiora erano ben note, del condotto che le raccordava al ramo di Grotte Renara si era persa memoria. Vari autori antichi e moderni ne hanno ipotizzato il tracciato ma sempre, come abbiamo scoperto nel corso delle nostre ricerche, con grossi errori di localizzazione: lo stesso Ashby (The Aquaeducts of Ancient Rome, 1935, p. 301) ipotizza, sbagliando, una ripida discesa nella valle del fosso di Fiora fino a Vigna Grande.

Dall’estate del 2013 il Centro Ricerche Sotterranee Egeria e l’associazione Roma Sotterranea stanno svolgendo una accurata indagine sul territorio che ha consentito il ritrovamento e l’esplorazione di questo tratto dimenticato dell’acquedotto Traiano. Alle esplorazioni partecipano numerosi tecnici e ricercatori afferenti ai due gruppi e Luigi Manna del Gruppo Cudinipuli (CS).
Il condotto scende dalla Fiora accostando inizialmente la sponda orografica sinistra del Fosso di Fiora per poi uscirne dirigendosi verso NE, sempre con lieve pendenza, seguendo all’incirca la curva di livello e quindi mantenendosi ben sopra i 300 m s.l. Dopo alcuni km inizia una discesa sempre più ripida verso Vigna Orsini ove si presume si trovasse il punto di raccordo con il ramo proveniente da Grotte Renara.

Il percorso è risultato quasi interamente sotterraneo, realizzato a poca profondità, mediante trincea ricoperta.
Un solo tratto è visibile sopra suolo, per il superamento di un piccolo fosso, tutti gli altri piccoli corsi d’acqua vengono sottopassati. La stessa cosa doveva avvenire in un punto non più visibile presso la sorgente, in corrispondenza degli impianti moderni dell’acquedotto di Bracciano.
Gran parte del percorso è stato individuato seguendo i pozzi collassati e i tratti residuali della trincea. Ciò che resta dell’acquedotto appare in tutto il suo fascino di opera idraulica “imperiale”, frutto di una tecnologia matura e realizzato con uno standard costruttivo elevatissimo ed uniforme per decine di chilometri. L’intonaco impermeabile è bianco e in perfetto stato, così come l’opus reticolatum dei rivestimenti: se non fosse stata distrutta la struttura sarebbe probabilmente ancora funzionante!

Dall’analisi teorica condotta con l’amico idrogeologo Leonardo (Leo) Lombardi, ben noto a chi si occupa opere idrauliche del mondo antico, emergeva anche un problema di dislivello. Le sorgenti della Fiora sono infatti poste a 325 metri s.l.m. mentre la sua prosecuzione intorno al lago scorre ad una quota di 180 metri s.l.m. Dunque il ramo di Santa Fiora doveva perdere 145 metri di quota in poco più di 3,5 Km, distanza che separa la sorgente dalla zona di Vicarello, nel quadrante NO del lago dove certamente confluivano vari rami dell’acquedotto. Una caduta in netto contrasto con la pendenza solitamente adottata negli acquedotti romani. Avevamo pertanto ipotizzato l’esistenza di una struttura atta ad assorbire l’urto della massa d’acqua che perdeva rapidamente quota, ad esempio un “dissipatore”, presente in alcune strutture romane come l’acquedotto di Beaulieu in Francia o Valdepuentes in Spagna. Grazie alle puntuali indagini sul territorio sono emerse novità importanti dal punto di vista della tecnica idraulica, che saranno presentate al Congresso Internazionale di Speleologia in Cavità Artificiali “Hypogea 2015” che si terrà a Roma tra il 12 e il 17 marzo 2015.

Le ricognizioni speleologiche hanno permesso di acquisire i rilievi topografici e le immagini delle tante porzioni sin qui rintracciate. Le esplorazioni proseguono e ci auguriamo che i risultati sin qui conseguiti possano presto essere confrontati con quelli raggiunti dai colleghi del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio nell’acquedotto Paolo.

Di Carla Galeazzi, Vittorio Colombo, Carlo Germani ©EgeriaCRS e ©Roma Sotterranea. Utilizzo e diffusione vietati.

Acquedotto Traiano. Foto Carlo Germani Archivio Egeria Centro Ricerche Sotterranee. Riproduzione ed uso vietati.

 

 

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Ponte di Mele (Velletri, Roma)

Parlando di “declino culturale” di una nazione, o di un popolo, si pensa a monumenti abbandonati, a recinzioni che celano per anni qualcosa in perenne restauro, a monumenti resi inaccessibili dal pericolo di crolli che prima o poi si verificano, a rovi che infestano antiche vie, fori e basiliche. In realtà il vero declino si annida, come un demone, ancor più nei dettagli.

L’Italia possiede una parte considerevole del patrimonio artistico e culturale dell’umanità e forse per questo l’attenzione si è da sempre concentrata sulle opere più note e rilevanti, trascurando opere “minori” che, a ben vedere, tali non sono.

Il Ponte di Mele, a Velletri, è una delle tante vittime dell’incuria, ma soprattutto dell’inciviltà di chi lo ha trasformato in discarica. Le sponde del canale, il greto e le parti ipogee sono completamente sommerse da rifiuti: lavatoi, cassonetti, copertoni, cassette, damigiane, reti… oltre alle immancabili bottiglie di plastica.

Invitati ad effettuare un sopralluogo speleologico al canale ipogeo addossato al Ponte di Mele dalla direttrice del Gruppo Archeologico Veliterno, da sempre impegnato nella segnalazione e nel recupero delle testimonianze e delle tracce archeologiche e storiche del territorio, con stupore ci siamo trovati di fronte ad una struttura ancora intatta, che ben testimonia le capacità progettuali dei nostri avi. Nonostante alcune fonti (Severini F., 2001) dessero il ponte per scomparso. L’equivoco potrebbe essere sorto perché effettivamente non è possibile accedere alla struttura senza il consenso esplicito dei proprietari dei fondi privati che insistono fra la provinciale e il fossato, oppure percorrendo il greto del torrente per un lungo tratto e in condizioni molto disagevoli.

Nel IV secolo a.C., durante la costruzione della Via Appia, i Romani dovettero affrontare anche il superamento del Fosso di Mele, situato pochi Km a sud-ovest di Velletri, ai piedi dei Colli Albani. Lo fecero utilizzando la tecnica del “ponte sodo”, ampiamente attestata in Etruria, nel Lazio settentrionale e in Campania, che consiste nello scavo di un cunicolo atto ad incanalare le acque del torrente in modo tale da non dover deviare il tracciato viario. Contestualmente, si rese evidentemente necessario realizzare anche un arco in grandi blocchi di tufo allo scopo di prolungare il cunicolo per non modificare il perfetto rettilineo dell’Appia. Questo forse a causa della scarsa tenuta di una parte dei terreni, poiché il condotto vero e proprio appare scavato in un blocco di lave compatte.

Da osservare che la zona ai piedi dei Colli Albani, fino al margine delle paludi Pontine, fu interessata da una vasta opera di bonifica realizzata anche con lo scavo di cunicoli di drenaggio (vedi p.es. Quilici Gigli, 1983). E’ possibile, quindi, che la lingua lavica sia stata sottoscavata e il fosso a valle approfondito per evitare l’impaludamento dei terreni a monte prima della realizzazione dell’Appia, quando Roma inviò i primi coloni nell’area. Le dimensioni dello scavo, decisamente superiori a quelle degli altri cunicoli della zona, potrebbero essere funzionali allo smaltimento delle piene del fosso.  L’arcata in blocchi di tufo fu invece realizzata per il corretto allineamento del ponte alla via consolare.

Seguendo il flusso orografico del torrente si incontra dapprima l’arco a tutto sesto, realizzato in blocchi di tufo, alto oltre 3 metri e largo 3,5 metri. Dopo 3-4 metri la struttura in muratura si innesta nel cunicolo scavato, che prosegue ancora per 12-13 metri. Questa parte risulta evidentemente modificata dal millenario passaggio del torrente e si presenta con 4-5 metri di larghezza per oltre due di altezza nel punto più alto. Non sono più visibili tracce della originaria sezione del cunicolo, né i segni di scavo. Tornato all’aperto il torrente prosegue rettilineo per altri 16 metri fino ad un salto di un paio di metri che forma una piccola cascata.

Vari autori hanno descritto il Ponte di Mele, ma mentre sui trattati del ‘900 non si trova cenno al degrado dell’area, evidentemente ancora assente, ne parlano tutte le relazioni che dalla fine del XX secolo arrivano sino ai nostri giorni. Nel ‘700 il pittore Labruzzi immortalò il viadotto in un famoso acquerello che mostra un Ponte di Mele ben visibile, facilmente percorribile e soprattutto non sommerso dai rifiuti. Un sogno lontano…

Purtroppo la scarsa valutazione delle possibili conseguenze, la limitata conoscenza del (proprio) territorio,  hanno reso lo smaltimento dei rifiuti nei fossi pratica molto diffusa un po’ ovunque. Ne consegue che la bonifica dell’area comporterà interventi non trascurabili, che tuttavia vivamente auspichiamo, in linea con le speranze del Gruppo Archeologico Veliterno che da tempo svolge una attiva campagna di sensibilizzazione per la riqualificazione dell’area.

Perché la speleologia si occupa anche di riqualificazione ambientale? Lo smaltimento dei rifiuti nel sottosuolo, quando non nasce da fatti criminosi, è dovuto in buona parte all’ignoranza delle possibili conseguenze degli sversamenti sugli acquiferi carsici e sulle acque superficiali. Per questi motivi l’impegno della speleologia organizzata in Italia non si limita alla semplice constatazione della presenza di inquinanti ma, ove possibile, elabora di concerto con le strutture locali strategie per arginare il fenomeno e recuperare gli ambienti ipogei danneggiati.

La Società Speleologica Italiana, associazione di protezione ambientale riconosciuta dal competente ministero della quale siamo soci, dal 2005 organizza e coordina la manifestazione “Puliamo il Buio”, giornate dedicate alla pulizia degli ambienti sotterranei (http://www.puliamoilbuio.it) ed alla sensibilizzazione delle comunità locali tramite mostre e convegni tematici, attività didattiche nelle scuole e pubblicazioni. Gli speleologi, infatti, possiedono le adeguate conoscenze tecniche e l’esperienza per muoversi in sicurezza nel mondo sotterraneo e possono segnalare e in parte risolvere casi di inquinamento e di degrado di grotte e ambienti ipogei che altrimenti resterebbero sconosciuti (Germani et alii, 2008).

Nel periodo 2005-2013 gli speleologi, contando prevalentemente sul volontariato ed attraverso una serie di operazioni sotterranee talvolta molto complesse, ha riportato all’esterno ed avviato a discarica autorizzata circa 140 tonnellate di rifiuti solidi, sottraendoli così al ciclo delle acque. Si tratta purtroppo solo di una piccola porzione dei rifiuti giacenti nel sottosuolo, che è stato possibile estrarre grazie all’opera di individuazione e segnalazione degli speleologi.

Ipotesi di valorizzazione del Fosso e del Ponte di Mele

Il Ponte appare ancora integro e la riqualificazione dell’area potrebbe essere attuata anche grazie ad interventi privati che mettano a disposizione risorse, o mezzi, per la rimozione dei rifiuti. La successiva valorizzazione potrebbe essere conseguita con investimenti economici di minima entità, creando un breve percorso naturalistico che consenta l’affaccio sul tratto a monte e, con diverso livello di fruibilità, l’attraversamento del condotto sotterraneo fino all’affaccio sulla cascata posta una ventina di metri più a valle. Una adeguata cartellonistica didattica/ambientale completerebbe il progetto riconsegnando ai cittadini veliterni, e non solo, un’opera bella ed importante posta sulla “regina viarum” lungo il territorio pedemontano di Velletri.

Per quanto è stato possibile riscontrare nel corso del sopralluogo effettuato il 26 gennaio 2014, i rifiuti visibili sembrano riconducibili al tipo “urbano” (art. 184 del D.Lvo. n.152/2006) e, allo stato, non è stata fortunatamente notata presenza di rifiuti tossici o nocivi. La disponibilità della nostra associazione è mirata alla riqualificazione della porzione ipogea e di quella immediatamente a ridosso della struttura archeologica, con rimozione manuale dei rifiuti presenti e trasferimento degli stessi all’esterno per consentirne il recupero dall’alto con mezzi meccanici..

Al termine della bonifica ambientale sarà probabilmente necessario procedere alla regolazione delle sponde ed alla realizzazione di opportune canalizzazioni per le acque piovane. Ci auguriamo che questo aspetto possa essere valutato e posto in essere dal Consorzio di Bonifica di Pratica di Mare nell’area del quale ricade il Ponte di Mele.

Carlo Germani e Carla Galeazzi ©Centro Ricerche Sotterranee Egeria

Bibliografia essenziale

Ponte di Mele:

Lilli M., 2008, Velletri – carta archeologica. L’Erma di Bretschneider, Roma, 2008, pp. 831-832.

Quilici L., 1991, Il Ponte di Mele sulla via Appia. In Arch. Cl. XLIII, 1991, pp. 317-327.

Quilici Gigli S., 1983, Sistemi di cunicoli nel territorio tra Velletri e Cisterna, In: Quaderni del centro di studio per l’archeologia Etrusco-Italica, Atti V Incontro di studi del Comitato per l’Archeologia Laziale, Ed. C.N.R., Roma, 1983.

Quilici Gigli S., 1996, Sui cosiddetti Ponti Sodi e Ponti Terra. In Atl. tematico di topografia antica n.5-1996, Strade Romane, Ponti e Viadotti, L’Erma di Bretschneider, Roma, 1996, pp. 11-12.

Severini F., 2001, Via Appia II da Boviallae a Cisterna di Latina. In Antiche Strade Lazio, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, p. 81.

Riqualificazione delle aree ipogee:

Germani C., Perissinotto ML., Martini M. (2008) – Grotte e discariche: l’esperienza di “Puliamo il Buio” 2005-2007. In: Atti convegno: Acque interne in Italia: uomo e natura. Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2009.

 
 

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Castel Gandolfo (RM): è partito il Progetto Albanus

Sabato 31 Agosto 2013 la Federazione dei gruppi speleologici del Lazio per le cavità artificiali Hypogea ha varato ufficialmente il “Progetto Albanus: studio e  documentazione dell’antico emissario Albano” che ha ottenuto l’autorizzazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e dell’Ente Parco Castelli Romani. Nella giornata di sabato è stato effettuato il primo sopralluogo speleologico esplorativo del sito. Hanno preso parte all’esplorazione venti speleologi e speleo subacquei dei tre gruppi afferenti ad Hypogea.

L’emozione di immergersi in una struttura realizzata 2410 anni fa è stata indescrivibile.

L’emissario Albano (comune di Castel Gandolfo) è il più noto fra le molte strutture di regimazione dei laghi vulcanici dei Colli Albani ed è anche l’unico citato da fonti storiche (Tito Livio V, 15; Dionigi d’Alicarnasso I, 66 e Piranesi). La tradizione storica colloca l’emissario Albano tra i più arcaici reperti documentati dell’opera cunicolare romana, secondo solo alla costruzione della Cloaca Massima. Ma non mancano ipotesi che attesterebbero la realizzazione dell’emissario in epoca ancora più antica (V. Castellani, 1999).

Fu realizzato per regolare il livello del lago di Albano, privo di un emissario naturale, in caso di eccessivo innalzamento delle acque, rendendo abitabili e coltivabili le rive del lago. Si tratta di un’opera di straordinario valore storico, archeologico e speleologico sino ad oggi scarsamente indagata per l’oggettiva difficoltà di percorrenza dello speco, quasi completamente allagato. La presenza di imponenti depositi concrezionali rende inoltre l’accesso dall’incile percorribile solo con tecniche speleo-subacquee. L’emissario fu esplorato parzialmente nel 1955 e nel 1958 da Dolci, nel 1958 da Chimenti e Consolini e nel 1978 da Vittorio Castellani che, con Cardinale e Vignati, stese per la prima volta il rilievo completo della struttura dopo numerose ed impegnative ricognizioni che tuttavia non consentirono di percorrere interamente lo speco.

La complessità delle operazioni suggerisce di preventivare la durata delle attività esplorative e di studio su un intervallo temporale di almeno tre anni. La campagna di studi denominata “Progetto Albanus”, sarà condotta dai tecnici e ricercatori di Hypogea in stretta collaborazione con la Soprintendenza e con l’obiettivo di esplorare, studiare e documentare l’antico emissario. Il progetto è dedicato alla memoria del Prof. Vittorio Castellani, insigne accademico e speleologo (http://www.speleology.it/vittorio.html).

Gli studi di dettaglio potranno essere svolti successivamente all’acquisizione di dati più recenti e consentiranno di verificare lo stato attuale dei luoghi, effettuare un rilievo topografico della struttura con moderna strumentazione e restituzione CAD, acquisire la documentazione fotografica e filmata ed effettuare le necessarie analisi ambientali per valutare la possibilità di un intervento – almeno parziale – di bonifica del condotto, la tutela del sito e fornire suggerimenti in ordine alla sua valorizzazione.

Il contributo e l’esperienza delle organizzazioni speleologiche afferenti ad Hypogea (A.S.S.O, Centro Ricerche Sotterranee Egeria e Roma Sotterranea) è imprescindibile in quanto l’esplorazione presenta tutte le difficoltà peculiari degli ambienti ipogei quali la presenza di tratti allagati, la necessità di muoversi in stretti cunicoli superando zone concrezionate, crolli e probabili dissesti e la progressione richiede l’utilizzo di specifiche tecniche speleologiche e speleosubacquee ormai ampiamente collaudate, che possono trovare sintesi solo in un gruppo di lavoro multidisciplinare quale il nostro.

HYPOGEA (www.hypogea.it) nasce dalla volontà condivisa di unire le esperienze e le professionalità di tre affermate organizzazioni operanti da più di un decennio nel settore della documentazione scientifica delle cavità artificiali.

A.S.S.O, Egeria Centro Ricerche Sotterranee e Roma Sotterranea hanno fatto convergere in questa realtà federativa le rispettive competenze tese alla conoscenza, salvaguardia, valorizzazione e tutela del patrimonio ipogeo.

Hypogea si occupa di ricerca, studio, salvaguardia, valorizzazione e tutela del patrimonio ipogeo, con particolare riguardo alle cavità artificiali di interesse storico archeologico o che presentino un potenziale fattore di rischio. Esplora e documenta ipogei artificiali di interesse storico ed archeologico attraverso ricerche e progetti che ne accrescono la valenza scientifica.

Promuove iniziative, anche di carattere legislativo, tese a tutelare e valorizzare le cavità artificiali che presentino caratteristiche storico- archeologiche di interesse.

La Federazione, direttamente e attraverso i gruppi ad essa associati, è rappresentata ed accreditata presso numerose realtà del mondo scientifico, speleologico, accademico, archeologico.

Collabora con le Istituzioni preposte alla tutela del patrimonio storico ed archeologico e con gli Enti Nazionali o Locali interessati alla conoscenza e alla identificazione di cavità artificiali, alla loro messa in sicurezza e alla progettazione di percorsi sotterranei turistico-culturali fruibili anche dal grande pubblico. È associata alla Società Speleologica Italiana, ed è componente della relativa Commissione Nazionale Cavità Artificiali. È rappresentata nella Union International de  Spéléologie – Commission on Speleology in Artificial Cavities. Collabora con associazioni di volontariato, strutture di comunicazione e documentaristica e con la Protezione Civile.

 

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Nell’Abbazia di San Nilo (Grottaferrata, Roma) gli speleologi scompigliano l’ascesi monastica.

Nell’anno 1004 un gruppo di monaci basiliani discepoli del venerando Nilo da Rossano raggiunse la Valle Molara, sui colli Tuscolani. Nelle vicinanze sorgevano i ruderi di una villa romana, fra i quali un basso edificio in opus quadratum, cella sepolcrale di epoca repubblicana adibita a partire dal V secolo ad oratorio cristiano. Il piccolo ambiente conservava ancora alle finestre le inferriate di epoca romana (la Cripta Ferrata) ed in questo luogo decisero di edificare il monastero che darà il nome al centro urbano di Grottaferrata, che nei secoli successivi si svilupperà a ridosso dell’Abbazia.

Pur nel costante impegno di fondazione e divulgazione i monaci non rinunciarono a lunghi periodi di vita solitaria e contemplativa. In particolare Nilo, che visse la maggior parte della sua vita in solitudine seguendo la regola basiliana, che conferì anche a tutti i suoi monasteri, modificata secondo la rigida tendenza all’ascesi che gli era propria.

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